La storia di tre donne, la psicoterapeuta e due clienti, che condividono vissuti tanto densi e profondi da segnare ognuna di loro.

Venti anni fa in un qualunque pomeriggio invernale incontrai per la prima volta due clienti che chiedevano psicoterapia, la prima alle 16 e la seconda subito dopo alle 17.

Erano due donne di cinquanta anni, entrambe insegnanti, di aspetto  gentile e molto tristi.

Non avevano niente altro in comune se non una storia di depressione e melanconia come tono di fondo che aveva reso grigia la loro vita.

Ascoltavo la prima, Rachele e poi l’altra, Ingrid e nei racconti che si intrecciavano senza che io potessi comprendere le radici della tristezza si affacciavano sentimenti di colpa ancora più difficili da spiegare.

Certo nella depressione c’è sempre il senso di colpa, la rabbia repressa, la melanconia come umore di fondo, ma io restavo sempre con un profondo interrogativo: che bambine erano state queste due signore e quali genitori avevano avuto?

Mi affioravano le immagini di bambine tristi, di madri tristi, di padri distanti.

Poi d’un tratto la svolta: Rachele scopre che la madre era ebrea, che si era sposata un cattolico e si era convertita durante il fascismo, ma che la nonna materna e lo zio erano stati deportati ed erano morti ad Auschwitz. Rachele era nata durante quei terribili anni di segreti e sofferenze di cui non si era mai parlato.

Ingrid era figlia di un ufficiale tedesco e di una donna italiana che si erano conosciuti durante la guerra. I genitori si erano poi separati in modo traumatico e lei aveva per tutta la vita avuto paura di quel padre così misterioso e rigido che doveva incontrare ogni estate. Solo durante la psicoterapia Ingrid si disse che il padre era un nazista e che lei provava profonda vergogna per quel legame che cercava di dimenticare.

Cosa c’è in me di lui, di quel veleno si disse, e Rachele intanto ricercava alla sinagoga quelle tracce delle sue origini che la madre non osava manifestare.

La depressione di Rachele e di Ingrid si risolveva man mano che la memoria affiorava e che le parole restituivano la possibilità di definirsi e liberarsi dalla profonda vergogna e dalla colpa che tutti proviamo se ci riconosciamo legati all’intero genere umano, figli di persone che sono stati tra i carnefici e le vittime del più grande disastro della storia.

Io contenevo dentro di me la misteriosa connessione tra le due che entrambe non hanno mai conosciuto e che passava dal mio studio a pochi minuti dalle parole e dalle lacrime dell’una e dell’altra.

Erano solo bambine, bambine e basta, nate nel buio e che dovevano ritrovare la luce e la fiducia.

Autore: Anna Emanuela Tangolo