Cristina Dazzi

Il mio lavoro di operatore presso il Servizio di Neuropsicologia di un centro di riabilitazione, mi porta quotidianamente a contatto con persone che, a seguito di lesioni del Sistema Nervoso Centrale, riportano conseguenze a carico delle funzioni cognitive.

I vari strumenti a disposizione (test neuropsicologici di tipo carta/matita o computerizzati, questionari di valutazione e auto-valutazione) permettono una valutazione precisa dei disturbi cognitivi del paziente e, in ultimo, la possibilità di formulare una diagnosi.

Capita però spesso che, nella riflessione sul paziente e nel confronto con i colleghi, emergano “impressioni” sulle possibili difficoltà del paziente. Ciò può accadere anche dopo un solo colloquio e la valutazione testologica che ne consegue può essere arricchita sulla base di questa non meglio definita “impressione”.

La prospettiva “Evidence Based” che pervade e guida i comportamenti da tenersi nei vari campi della medicina e, di conseguenza, della riabilitazione, richiede a buon diritto che le procedure di diagnosi e cura siano condotte nella conoscenza e nel rispetto di ciò che la comunità scientifica, in seguito a studi condotti con rigore, indica come i percorsi migliori da seguire. Ciò non toglie, a mio giudizio, che il clinico esperto possa continuare ad usare il proprio “fiuto” come guida ulteriore nel proprio lavoro, talvolta per approfondire una valutazione che, a prima vista, sembra non mettere in evidenza nulla che non vada. Spinta da queste considerazioni mi sono avvicinata ai lavori sull’intuizione per poi comprendere che Berne ne dà una visione di ben più ampio respiro.

Il lavoro di Berne sull’intuizione prende le mosse da osservazioni da lui fatte in un centro di smistamento dell’esercito verso la fine del 1945. La valutazione psichiatrica che Berne doveva condurre aveva lo scopo di individuare quali fra i soldati fossero adatti al servizio militare. A causa dell’elevato numero di persone da valutare, tale giudizio doveva essere espresso in un tempo che andava dai 40 ai 90 secondi! Gradualmente Berne si interessò alla natura del procedimento che gli permetteva di svolgere, con buoni risultati, il proprio lavoro.

I primi articoli sull’intuizione sono di grande interesse anche perché vi si possono trovare le prime “intuizioni” su ciò che sarà poi sviluppato nella sua concezione degli stati dell’Io e, di conseguenza, nelle basi dell’Analisi Transazionale.

 

DEFINIZIONE

L’interesse di Berne a proposito dell’intuizione si rende manifesto in una serie di scritti che coprono gli anni dal 1949 al 1962. In uno di questi (1952) l’autore ci dice che durante una conversazione che ebbe con lui, il professor Eugen Kahn sostenne che uno psichiatra attento ed esperto fosse in grado di individuare gli uomini inadatti al servizio militare molto rapidamente e che, uno studio più approfondito dei candidati poco aveva da aggiungere alla percentuale di esattezza dello psichiatra.

Berne ebbe l’opportunità di mettere alla prova questa affermazione mentre prestava servizio come psichiatra presso il centro di smistamento dell’esercito nel 1945; qui gli era richiesto di esprimere un giudizio sui soldati che valutava in un tempo che variava dai 40 ai 90 secondi. I soldati si presentavano tutti indossando gli stessi abiti (accappatoio e pantofole) e con, in mano, dei documenti che li riguardavano e che venivano consultati solo alla fine del colloquio. L’esame consisteva in due domande di base: “sei nervoso?” e “sei mai andato da uno psichiatra?”. Fu fatto il tentativo di indovinare, nei pochi istanti di osservazione silenziosa che precedevano l’inizio dell’esame, come il soldato avrebbe risposto alle domande. Si riscontrò che era possibile farlo con sorprendente precisione. L’interesse dell’autore, a questo punto, si rivolse al processo che rendeva ciò possibile, l’intuizione.

A questo punto, allo scopo di introdurre l’argomento, si ritiene utile inserire alcune delle possibili definizioni di intuizione. La definizione dal vocabolario Treccani ci dice che l’intuizione è “la conoscenza diretta e immediata di una verità, che si manifesta allo spirito senza bisogno di ricorrere al ragionamento, considerata talora come forma privilegiata di conoscenza che consente, superando gli schemi dell’intelletto, una più vera e profonda comprensione (e a volte creazione) dell’oggetto” (http://www.treccani.it). Aristotele parla di “induzione intuitiva” e ci dice che tale funzione si basa sulla capacità dell’organismo di:

1. Sperimentare percezioni sensoriali

2. Ad un livello superiore di organizzazione, di conservare le percezioni sensoriali

3. Ad un livello ancora più alto, di sistematizzare tali ricordi.

Jung ci dice che l’intuizione è “quella funzione psicologica che trasmette percezioni in modo inconscio” (Jung, 1921). È una delle quattro funzioni fondamentali e innate della coscienza: pensiero, sentimento, sensazione e, appunto, intuizione. Tali funzioni psicologiche ci permettono di elaborare i contenuti che ci giungono dall’esterno e dall’interno. Il pensiero e il sentimento sono considerati razionali, la sensazione e l’intuizione, irrazionali.

Arrivando a Berne (1949): “l’intuizione è la conoscenza basata sull’esperienza acquisita attraverso il contatto sensoriale con il soggetto senza che chi intuisce riesca a spiegare esattamente a se stesso e agli altri come è pervenuto alle sue conclusioni. Oppure, in termini psicologici, può essere definita come la conoscenza basata sull’esperienza e acquisita mediante funzioni inconsce o preconsce preverbali attraverso il contatto sensoriale con il soggetto” e, in uno scritto del 1955 la definisce ancora come un “processo diagnostico spontaneo i cui prodotti finali diventano spontaneamente coscienti se si eliminano le resistenze” e aggiunge: “ha a che fare con l’elaborazione automatica delle percezioni sensoriali”.

 

IL PROCESSO INTUITIVO

Tornando all’esperienza nel centro di smistamento dell’esercito, Berne, dopo aver raccolto i dati rispetto alla procedura messa in atto e descritta in precedenza, estrapolò alcuni fattori che riteneva potessero entrare in azione nel momento in cui cercava di formulare una previsione rispetto alle possibili risposte dell’interlocutore.

Dopo che tali criteri vennero applicati durante l’esame, osservò che la percentuale di previsioni corrette era inferiore rispetto a quando il processo intuitivo poteva funzionare senza interferenze. Si concluse che i criteri usati nel processo intuitivo non erano stati tutti formulati e si decise di condurre un esperimento più formale durante il quale si tentò di indovinare quale fosse stata l’occupazione di ogni soldato nella vita civile e di formulare poi i dati sui quali si basavano le congetture.

Durante tutto lo studio furono fatti continui tentativi di verbalizzare le basi dei giudizi. Ogni volta che un criterio era verbalizzato adeguatamente, veniva provato su diverse centinaia di casi. Si rilevò di nuovo che, basandosi su tali criteri formulati, si ottenevano risultati meno affidabili che non con la semplice intuizione. Ogni volta che si aggiungeva un nuovo criterio alla formulazione, la percentuale di successi saliva, ma non raggiungeva mai il livello raggiunto con il solo uso dell’intuizione. Il lavoro condotto permise a Berne di approfondire il concetto di intuizione e affermare che essa è strettamente correlata a come gli individui si formano i loro giudizi di realtà.

I processi che portano alla formazione dei giudizi (Berne, 1949) sono così descritti dall’autore:

1. Percezione verbalizzata, logica e attivamente diretta (per esempio, la diagnosi di schizofrenia fatta da studente); questo è un processo conscio

2.Processi e osservazioni non verbalizzate basate su conoscenze antiche e strutturate che si sono integrate con la personalità (diagnosi da parte di medico esperto); questo è un processo preconscio

3. Processo “subconscio primario”; si attua tramite l’aiuto di indizi che provengono dai sensi (compreso l’olfatto). Questo tipo di processo intuitivo è il più interessante dal punto di vista dell’autore, in quanto il giudizio è costituito dalla sintesi di elementi sensoriali distinti (percezioni “subliminali”) di cui sia la percezione sia la sintesi sono al di sotto del livello di coscienza. È perciò un processo preconscio.

4.Secondo modalità che non possono essere spiegate – processo inconscio.

 

Berne aggiunge che i giudizi relativi ad altre persone sono spesso funzione dell’intera serie epistemologica. In sintesi, nel processo intuitivo il soggetto conosce qualcosa senza sapere come lo conosce o, addirittura, può non sapere cosa conosce ma si comporta e reagisce in un modo specifico come se le sue azioni si basassero su qualcosa che conosce.

Ancora nello stesso articolo l’autore così ci riassume le caratteristiche salienti del processo intuitivo:

“Lo stato d’animo intuitivo è rafforzato da un atteggiamento di vigilanza e di recettività senza partecipazione attivamente diretta dell’Io percettivo. Esso si ottiene più facilmente con la pratica; può esaurirsi ed è faticoso. Intuizioni in diversi campi non sembrano interferire reciprocamente. Le intuizioni non dipendono tutte da una vasta esperienza nel settore dato. Gli stimoli fisici estranei, sia esterni sia interni, sembrano essere irrilevanti”.

L’intuizione è perciò favorita da un particolare atteggiamento mentale, la “disposizione intuitiva”, ma non si conosce come tale atteggiamento possa essere indotto. Sembra essere necessario uno stato di vigilanza e recettività che richiede una intensa concentrazione. La funzione intuitiva è, perciò, faticosa e tende ad esaurirsi, la si può aumentare con la pratica ma poi si raggiunge una stabilizzazione. La pratica facilita lo stato d’animo intuitivo e l’inattività può ostacolarlo. La partecipazione diretta dell’”Io percettivo” sembra essere di ostacolo all’intuizione: la ricerca deliberata degli indizi sensoriali già verbalizzati, infatti, danneggiava il processo intuitivo. L’intuizione è una facoltà del’Io arcaico, è ridotta dal pensiero etico (Genitore) e dal pensiero logico (Adulto). L’ansia può essere di ostacolo.

L’auto-osservazione durante il processo intuitivo suggerisce che “le cose vengano disposte automaticamente” in modo subconscio, separate e integrate nell’impressione finale che viene verbalizzata con qualche incertezza. Ma che cosa è intuito? A questa domanda Berne risponde dicendo che ciò che viene verbalizzato (per es. il mestiere del soldato) non è ciò che è stato intuito. Ciò che la funzione intuitiva percepiva, al di sotto del livello coscienza, nel corso dello studio, era in realtà “l’atteggiamento verso una situazione reale imponderabile” (stare di fronte a una persona autorevole che mi guarda in silenzio e io non so cosa ci si aspetti da me, non so cosa debba fare); queste percezioni venivano poi trasformate dall’Io di colui che intuiva in un giudizio sul gruppo professionale e in questo modo potevano essere verbalizzate.

Berne sostiene che possono essere intuiti almeno due tipi di fattori: gli atteggiamenti nei confronti della realtà (atteggiamenti dell’Io) e le manifestazioni istintuali (atteggiamenti dell’Es). L’osservatore può ricavare gli indizi (ancora a livello sub conscio) dell’espressione dell’Io dall’osservazione degli occhi, quelli dell’espressione dell’Es dai muscoli della parte inferiore del viso, della bocca e del collo.

 

L’ONTOGENESI DELL’INTUIZIONE NELLA PROSPETTIVA DELL’ANALISI TRANSAZIONALE

Nel descrivere la capacità intuitiva dei bambini Berne (1955) mette in evidenza la capacità che essi hanno di emettere giudizi appropriati basandosi non su comunicazioni manifeste, bensì su comunicazioni latenti, utilizzando, in modo inconsapevole, sensazioni primitive e processi prelogici. Un esempio dell’uso dell’intuizione da parte del bambino è quella del rifiuto apparentemente immotivato che egli oppone a una persona che tenta di ingraziarselo mentre invece accetta le attenzioni di chi si mostra schietto e disponibile nei suoi confronti. Anche se il comportamento osservabile delle due persone può sembrare identico, il bambino sembra “sapere” di chi possa fidarsi e di chi no. Tale facoltà si sviluppa nel bambino in età molto precoce. Alla nascita, la struttura di personalità che presenta il neonato viene definita in Analisi Transazionale (AT), Bambino Somatico o Biologico.

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Tra la nascita e il 6°- 8° mese di età si riscontrano nel Bambino Somatico tre categorie di fenomeni (Moiso & Novellino, 1982):

1.reazioni riflesse agli stimoli, sia interni (la fame), che esterni (il capezzolo): pianto e suzione. La struttura che attiva queste reazioni è detta B0

2.attrazione o evitamento intrinseci a una particolare esperienza interna: comportano il semplice riconoscimento di stimoli familiari seguiti da una risposta somatica (ad es. a un neonato non sono graditi gli omogeneizzati di colore verde pisello e li rifiuta quando gli vengono proposti). La struttura interessata è detta A0

3.attrazione o evitamento condizionati a stimoli provenienti dalle figure genitoriali. Ad es. il pianto come reazione alla frustrazione viene a cessare in un infante i cui genitori abitualmente e ripetitivamente non rispondono in modo efficace al suo richiamo. La struttura interessata è G0

 

La struttura globale del Bambino Somatico è così rappresentata:

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Nel periodo tra il 6° e il 12° mese il bambino entra in un nuovo stadio di indipendenza e sviluppa un maggior controllo del proprio corpo, una maggior capacità di esplorazione dell’ambiente e, intorno al’8°-9° mese, comincia a percepire la madre come separata da sé. A questo punto diventa di vitale importanza, per il bambino, contenere la frustrazione della separazione dalla madre, ad un livello che sia per lui tollerabile. Si inizia lo sviluppo di una struttura chiamata Piccolo Professore o A1, capace di riconoscere la madre come separata e di ritenerne l’immagine in sua assenza. Tale struttura diviene capace di una “angoscia anticipatoria” quando il bambino percepisce che la madre sta per andarsene via e quindi esplora dei comportamenti per impedirlo.

 

La struttura di personalità del bambino è adesso così rappresentata:

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l Bambino Somatico (B1) prova disagio quando i genitori reagiscono negativamente alle sue espressioni spontanee. In risposta a questo disagio, il Piccolo Professore (A1) cerca di intuire cosa i genitori si aspettino da lui, quindi a partire da questa intuizione tira le sue conclusioni e scopre quali comportamenti e stati d’animo vengano approvati, per poi integrarli in una strategia d’azione che, a mano a mano che viene rinforzata dai genitori, diventa automatica ed esce dal campo d’azione dell’A1 per andare a costituire (intorno al terzo anno d’età) il Genitore nel Bambino (G1) anche detto Elettrodo.

 

Adesso la struttura del bambino è così rappresentata:

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Il bambino piccolo, perciò, tenta di valutare il mondo che lo circonda e di risolvere i problemi che incontra utilizzando il Piccolo Professore. Non ha ancora a disposizione processi logici, deve fare affidamento su processi prelogici. È l’intuizione che lo guida nel tentativo di elaborare una risposta creativa, la migliore in quel momento che il bambino riesce a dare per sopravvivere nel suo ambiente. Il Piccolo Professore elabora e introietta gli stimoli esterni e, con gli strumenti che ha a disposizione, elabora delle strategie per risolvere il problema che si trova ad affrontare.

A. Rotondo (2001) sottolinea che “è la funzione intuitiva del piccolo adulto del B che si mette in moto e attraverso ripetute mediazioni tra ciò che intuisce come richiesta ambientale e ciò che sente irrinunciabile per sé, attraverso ripetute messe in scena di comportamenti provati e riprovati, crea infine le decisioni di copione1”.

L’intuizione sembra perciò essere uno strumento che ciascuno si è trovato ad utilizzare in epoche precoci della propria esistenza. Berne ne parla come di un fenomeno archeopsichico, appartenente allo stato dell’Io Bambino (B2)2. È ancora il Piccolo Professore che agisce quando si utilizza l’intuizione nella vita adulta ma la sua azione risulta essere abolita quando predomina il pensiero logico (Io Adulto neopsichico o A2) o il pensiero “etico” (Io Genitore estero psichico o G2).

 

IL RUOLO DELL’INTUIZIONE NELLA COMUNICAZIONE

Nel suo lavoro del 1953 Berne comincia la sua dissertazione sulla comunicazione con un parallelo fra il modo di concepire, appunto, la comunicazione in psicologia e in cibernetica. Secondo quest’ultima, un meccanismo non può ricorrere al presente per modificare il passato; il rumore, in una comunicazione, interferisce con la possibilità di trasmettere l’informazione fino ad arrivare all’impossibilità di comunicare, inoltre, se il rumore è assente, il messaggio viene trasmesso in modo preciso.

Da un punto di vista psicologico, invece, il concetto di messaggio preciso è inconcepibile in una comunicazione interpersonale; il rumore (intrinseco) accresce anziché diminuire la quantità di informazione psicologica; in ultimo, gli esseri umani possono con successo, ricorrere al futuro per influenzare il passato.

Se lo psichiatra definisce l’informazione dal punto di vista dell’emittente come ciò che questi intende manifestamente comunicare e il rumore come ciò che viene comunicato inavvertitamente, senza che ve ne fosse l’intenzione, allora il rumore diviene uno strumento per la comprensione dello stato variabile di chi comunica.

Dal punto di vista del ricevente, molto dipende dalla sua impostazione. Se chi ascolta è interessato all’informazione dell’emittente, cercherà di escludere il rumore, se invece è interessato a comprendere qualcosa sul funzionamento dell’emittente, si concentrerà sul rumore che, a questo punto, diventerà esso stesso informazione relegando al ruolo di “rumore” ciò che l’emittente intendeva comunicare. Può essere che in un secondo momento il ricevente decida di porre attenzione alla comunicazione esplicita, a questo punto la comunicazione non intenzionale tornerà ad essere “rumore”. Nella situazione psicologica perciò, quella che è informazione in un momento può diventare rumore e viceversa, per un cambiamento dell’atteggiamento del ricevente. Come corollario di ciò si può aggiungere che il valore di una comunicazione non può essere fissato dall’emittente ma solo dal ricevente. A maggior ragione se accettiamo la definizione del linguista Mario Pei (1949), per il quale il linguaggio “è un qualsiasi trasferimento di significato” da cui consegue che, qualsiasi cosa non possa essere compresa non è una comunicazione.

Risulta evidente che la comunicazione si sviluppa su due piani differenti: uno manifesto (ciò che l’emittente dice, l’informazione) e uno latente (il rumore, che ci dà indicazioni sullo stato dell’emittente). Per quanto chi comunica possa cercare di essere preciso, la sua comunicazione non sarà limitata a ciò che intende dire ma sarà arricchita da tutta una serie di informazioni delle quali non avrà piena consapevolezza.

Già Darwin (1886) aveva catalogato le espressioni facciali degli uomini e dei primati non-umani enfatizzandone la natura universale. In particolare aveva osservato che le espressioni facciali sono connesse a stati emotivi diversi e hanno una funzione comunicativa.

Oltre all’espressione del volto la componente non verbale della comunicazione comprende: tutto ciò che ha a che fare con il linguaggio al di là dei contenuti dello stesso e perciò il tono di voce, la frequenza di emissione delle parole, la prosodia utilizzata; la gestualità e la postura tenuta durante la comunicazione; la prossemica e perciò la distanza tenuta dall’interlocutore; l’aptica, cioè i messaggi inviati all’interlocutore tramite il contatto fisico (per es. la stretta di mano).

Si deve qui puntualizzare che, così come l’emittente comunica, così il ricevente percepisce attraverso una configurazione di molte funzioni. Egli capisce più di quanto si renda conto di capire, così come l’emittente rivela più di quanto intenda rivelare. È qui che entra in gioco l’intuizione. Il ricevente forse non è consapevole del fatto che è stato comunicato qualcosa oltre al contenuto manifesto; oppure, se ne è consapevole, forse non sa come la comunicazione latente è stata trasmessa. Ciò nonostante egli si comporta e agisce come se avesse qualche ulteriore conoscenza. Egli è in grado, tramite l’intuizione, di fornire quella che Berne definisce una “risposta latente” ed è in base a questa che il ricevente fa affidamento sul futuro per riadattare il passato in nuove componenti di rumore e informazione. Tramite l’intuizione io posso comprendere (anche in maniera non consapevole) il contenuto latente della comunicazione che sto ricevendo e che mi fornisce informazioni sulla psicologia dell’interlocutore; ancora tramite l’intuizione posso dare una risposta (latente) nel qui e ora, alla comunicazione (latente) che sto ricevendo. Avrò, nel futuro, la possibilità di utilizzare le informazioni che ho intuito in modo da dare, a questo punto in modo consapevole, un’interpretazione differente a ciò cui ho assistito nel passato.

A questo riguardo, Berne ci dice, la qualità peculiare dell’analista (o del counselor, dico io) è la capacità di scoprire della comunicazione latente più di quanto si scopra normalmente, di fare, cioè, un uso più proficuo dell’intuizione. Questa capacità egli l’acquisisce esercitandosi a scoprire le proprie risposte latenti causate da controtransfert e ansia.


1 Berne ha definito il copione “un piano di vita inconscio” (trad. it 1986)Successivamente lo ha definito come “un piano di vita che si basa su una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva (trad. it. 1979)

2 Nell’adulto gli stati dell’Io sono detti G2, A2 e B2. La struttura di personalità che era propria del bambino piccolo (G1, A1 e B1) è andata a costituire il B2


 

L’INTUIZIONE COME STRUMENTO PER IL CLINICO

IL PROCESSO DIAGNOSTICO

Già è stato detto che ogni individuo è in grado di formulare una diagnosi dove ciò corrisponde a formulare un giudizio. Questo processo si attua, nelle persone in possesso delle proprie facoltà mentali, continuamente e rapidamente. Gli esseri umani si formano dei giudizi tramite processi preverbali (cognizione senza insight) che operano quasi automaticamente al di sotto del livello di coscienza. Arrivando al processo diagnostico messo in atto in ambito clinico, possiamo dire che la diagnosi preliminare formulata da un clinico esperto è il prodotto di processi preverbali che sono più funzione della sua abilità, perspicacia ed esperienza che il risultato della deliberata applicazione di una serie di criteri formali.

Il clinico che usa volutamente, quando desiderabile, le sue facoltà intuitive nel lavoro diagnostico e terapeutico viene definito da Berne (1962) “individuo intuitivo”. Deve essere curioso e mentalmente vigile a manifestazioni latenti e manifeste. Nel particolare campo della diagnosi psichiatrica Berne (1952) riconosce tre fasi attraverso le quali si sviluppa la capacità di fare diagnosi:

• Una prima fase, tipica dei principianti, i quali emettono una diagnosi sotto il controllo cosciente e tramite un processo aggiuntivo basato su criteri didattici.

• Una seconda fase, che attiene agli esperti, nella quale sia il processo di osservazione sia il processo di selezione e accordo tra schemi preideati sono in parte sotto la soglia della coscienza.

• Vi è un’ultima fase in cui la diagnosi viene formulata in modo non consapevole; in questo caso la verbalizzazione e la razionalizzazione sono un processo secondario e successivo.

 

L’intuizione, perciò, entra sempre più nel processo diagnostico a mano a mano che il clinico acquista competenze ed esperienza. Il ruolo del linguaggio è preponderante nel principiante il quale lo utilizza per facilitare il meccanismo aggiuntivo che usa nel fare diagnosi. Per l’esperto la diagnosi intuitiva preliminare ha carattere integrativo e configurativo; egli ha bisogno di osservare e comprendere le comunicazioni del paziente e, in genere, si sente più sicuro quando può osservare la configurazione totale della personalità del paziente senza l’intervento di filtri e in un ambiente a lui familiare. Berne parla di filtri suddividendoli tra esterni, quando la comunicazione avviene tramite mezzi estranei (per es. la posta) o interni. Questi ultimi possono essere molto pericolosi in quanto, in genere, agiscono al di sotto del livello di coscienza; fra essi sono annoverati gli schemi appresi dagli studi effettuati, il controtransfert, l’ansia e la scarsa fiducia in sé.

In sintesi: le competenze acquisite nel tempo mettono a disposizione del clinico una maggior selettività nell’analisi delle configurazioni e una verbalizzazione più puntuale ma questi sono elementi che rimangono a latere del processo diagnostico come fin qui è stato inteso; l’accresciuta capacità intuitiva ha a che fare con la possibilità di cogliere tutti i messaggi sensoriali che giungono “sotto soglia” e tramite essi cogliere la configurazione che permette al clinico di comprendere il paziente, di formulare un giudizio su di esso.

 

LE MANIFESTAZIONI FENOMENOLOGICHE DELL’INTUIZIONE

Abbiamo detto che l’intuizione può essere definita come un genere speciale di diagnosi derivante da processi arcaici subconsci (preconsci e/o inconsci). Le intuizioni, in quanto percepite coscientemente, sono derivate di giudizi primari, che sono basati su immagini primarie attivate da comunicazioni latenti. Ogni persona adulta, dice Berne nel 1955, dispone di un serbatoio di immagini primarie e di giudizi primari, strettamente interconnessi, che “vengono attivati selettivamente in risposta al comportamento delle persone incontrate”.

Le immagini primarie sono immagini di una relazione oggettuale infantile, sono “rappresentazioni presimboliche delle transazioni interpersonali. Possono essere considerate rappresentazioni delle basi psicofisiologiche dell’espressione sociale di un’altra persona” (Berne, 1955). I “giudizi primari sono la rappresentazione (corretta o scorretta) delle potenzialità della relazione oggettuale rappresentata dall’immagine” (Berne, 1955). I giudizi primari indicano una concezione, basata sulle immagini primarie, di certi atteggiamenti arcaici inconsci di altre persone. Questi atteggiamenti derivano da vicissitudini istintuali della prima infanzia. Tali concezioni “primarie” possono essere influenzate selettivamente dai bisogni e dagli sforzi arcaici dell’individuo che percepisce; tuttavia, come è già stato accennato, sembrano spesso riflettere qualcosa delle modalità di relazione di un’altra persona. Le immagini primarie, siano esse consce o inconsce, sono attivate nelle relazioni interpersonali e sono messe in relazione alla formazione di giudizi basilari riguardo alle persone incontrate. Negli adulti normali, in condizioni ordinarie, tali giudizi primari non diventano direttamente coscienti ma sono più o meno filtrati attraverso uno strato di determinanti culturali da cui emergono in forma civilizzata. Quando incontrano una persona estranea, sia l’adulto che il bambino ne comprendono gli aspetti fondamentali ma, mentre quest’ultimo ha una risposta diretta immediata, l’adulto filtra questa comprensione fondamentale (risposta latente) attraverso il proprio Io condizionato dalle esperienze di una vita e attraverso il proprio Super Io. La persona diventerà perciò cosciente di un’impressione selezionata e alterata nonché schematizzata dal processo di verbalizzazione.

Le immagini primarie possono emergere alla coscienza nella loro forma più cruda e dirompente nei pazienti affetti da schizofrenia. Tali immagini possono ostacolare un buon funzionamento mentale impedendo al paziente un adeguato contatto con la realtà e i giudizi primari gli impediranno un buon funzionamento sociale.

Mariateresa Multari (1988) puntualizza che il rapporto psicoterapeutico è una relazione in cui tipicamente hanno un ruolo rilevante sia le immagini sia i giudizi primari, in quanto paziente e terapeuta, specie all’inizio del rapporto, ricorrono, per “saper” qualcosa l’uno dell’altro, alle proprie facoltà intuitive.

La differenza fra paziente e terapeuta consiste nel fatto che, il primo, si forma il suo giudizio primario a partire dalla propria posizione patologica e mette in atto un numero ristretto di risposte latenti allo scopo di ottenere la soddisfazione di bisogni che hanno radici nella sua infanzia. Il terapeuta invece, analizza le comunicazioni del paziente per trovare la richiesta latente più importante tramite il proprio intuito e senza soddisfare i propri bisogni. Il meccanismo dell’intuizione, per lui, deve essere sublimato, cioè delibidizzato, e posto al servizio del suo Adulto o degli obiettivi sociali del suo Genitore. Il clinico può formulare dei giudizi primari e percepire l’immagine primaria inviatagli dal paziente; se tale immagine distorta entra nella coscienza del terapeuta, la sua efficacia terapeutica ne risulterà accresciuta. È interessante notare che dallo stesso substrato arcaico possono nascere capacità socialmente utili e corrispondenti gravi disturbi patologici: la capacità di formulare diagnosi corrette e, ad esempio, la paranoia, derivano entrambe da giudizi primari ma si differenziano per un differente livello di sublimazione.

L’immagine primaria ha a che fare con l’attività istintuale del paziente, è la percezione da parte del terapeuta delle modalità e delle azioni istintive del paziente suscitate dalla situazione terapeutica e dirette verso il terapeuta; essa è una delle possibili manifestazioni fenomenologiche della comprensione intuitiva del paziente, l’altra è costituita dall’immagine dell’Io.

Berne ci riporta da Federn: “Che le configurazioni dell’Io di livelli di età precedenti siano mantenute potenzialmente in esistenza entro la propria personalità è provato sperimentalmente, visto che esse possono essere rienergizzate direttamente in speciali condizioni; per esempio nell’ipnosi, nei sogni e nella psicosi.” L’immagine dell’Io è perciò una percezione specifica (intuitiva) dello stato arcaico attivo dell’Io del paziente in relazione alle persone che lo circondano (Berne, 1957).

Nel rapporto terapeutico è possibile utilizzare l’immagine dell’Io per avere suggerimenti su come relazionarsi con il paziente. Essa è di più facile utilizzo rispetto alle immagini primarie poiché, in genere, suscita reazioni di controtransfert di più facile gestione per l’operatore. Se l’immagine dell’Io intuita dal terapeuta è corretta, e il terapeuta agisce in conseguenza ad essa, si dovrebbero avere segnali di maggior integrazione del paziente e ciò rassicura a proposito della correttezza dell’intuizione anche quando non se ne rintraccia la base storica.

Per chiarire il concetto Berne ci offre un esempio clinico, il caso di una donna di quaranta anni affetta da emicrania grave per la quale erano già stati tentati svariati rimedi, compresa la psicoterapia, senza successo. La paziente mostrava molti sintomi di depressione. L’immagine primaria che l’autore ne ebbe fu chiara: sguazzava nelle feci ed era presa in un conflitto circa la possibilità di continuare a defecare, con abbondanza ma anche con cattiveria, proprio sopra al terapeuta. Una chiara immagine dell’Io fu raggiunta solo dopo due anni di trattamento durante i quali i progressi furono non pienamente soddisfacenti per l’autore. L’immagine primaria, emersa dopo il racconto di seconda mano di un ricordo di copertura rimosso, era costituita dall’immagine di una bambina piccola con un pannolino gocciolante, che si ritraeva dal disgusto e dalla condanna severa della madre e cercava uno zio che la tenesse così com’era. A questo punto il terapeuta aveva un modello da seguire nel relazionarsi con la paziente, doveva comportarsi come lo zio. Le reazioni di controtransfert potevano essere così meglio comprese, controllate ed elaborate. La situazione della paziente ne trasse giovamento. È molto importante che la capacità intuitiva del terapeuta lo guidi nella scelta, all’interno della massa dei ricordi riportati dal paziente, di quello che possa andare a costituire l’immagine dell’Io da utilizzare nel rapporto terapeutico.

Se l’immagine dell’Io non è disponibile il terapeuta può recuperare due validi sostituti, il modello dell’Io e il simbolo dell’Io. Il primo è costituito da una serie di descrizioni del paziente che non riescono comunque ad offrire un’immagine olistica. Il secondo è una via di mezzo fra il modello e l’immagine dell’Io. Anche qui Berne ci descrive, fra gli altri, un caso in cui, durante l’esecuzione di un test di Rorscharch, il paziente offrì due immagini utili al terapeuta, un verme e un insetto disseccato. Ciò poteva essere utile come guida per il comportamento da tenere con il paziente: il terapeuta cercò di tenere il comportamento che riteneva fosse adatto ad un uomo che riteneva di non valere più di un verme o di non essere più vitale di un insetto disseccato.

 

CONCLUSIONI

Questo breve lavoro mi ha offerto la possibilità di riflettere sulle potenzialità dell’intuizione in ambito comunicativo e diagnostico (anche nell’uso che ne fa Berne). In qualche modo oggi, mi sento più autorizzata nell’utilizzo delle informazioni che mi giungono dalle mie capacità intuitive. Ho potuto riflettere sulla possibilità di potenziare e affinare e, perché no, riscoprire e valorizzare, l’antica capacità di cogliere i tanti messaggi che ci giungono da tutti i nostri sensi quando ci mettiamo in relazione con l’altro. Nello stesso tempo sono stata anche allertata rispetto ai possibili rischi di un uso poco critico del processo intuitivo.

Mi sembra di poter dire, con Berne, che l’intuizione è uno strumento potente, offertoci dal nostro Bambino, da mettere a disposizione dell’Adulto e del Genitore. In altre parole, essa può fornire un supporto fondamentale nelle relazioni interpersonali e, in particolare, nelle relazioni operatore- paziente. L’operatore, sia esso un counselor o uno psicoterapeuta (o l’operatore di un servizio di neuropsicologia), deve poter inserire il contributo dell’intuizione, all’interno di una base teorica ed epistemologica sufficientemente salda. È altresì fondamentale che l’operatore abbia una buona conoscenza di sé e della propria struttura di personalità in modo da poter riconoscere e gestire le proprie risposte, a maggior ragione in questo caso, in cui il processo potrebbe non essere pienamente consapevole. In ultimo, è utile, nonché etico e deontologicamente corretto, che il prodotto dell’intuizione sia verificato con attenzione e utilizzato a solo beneficio del paziente.

 

BIBLIOGRAFIA

Berne, E. (trad. it. 1979). Ciao!…E poi? Milano: Bompiani.

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