Andrea Marconcini

Luglio 2005

Forme organizzative differenti passano attraverso l’assegnazione di una maggiore autonomia e responsabilità dei dipendenti “riscoperti” come risorse dotate di particolare valore ed in grado di contribuire alle attività dell’organizzazione.

Premessa: psicologia e organizzazioni

Nel corso degli anni si è assistito a un cambiamento nel modo di concepire le organizzazioni. Questo è in parte dovuto agli inevitabili mutamenti aziendali che col tempo hanno portato all’introduzione di nuove tecnologie produttive e modalità di organizzazione del lavoro, in parte al pionieristico lavoro di psicologi (sociologi e studiosi del comportamento organizzativo) (D’Imperio, 1994) che, recuperando le problematiche dell’individuo, hanno trattato le organizzazioni come “insieme di sentimenti, atteggiamenti, percezioni, come confluenza di fatti interni agli individui *…+ cioè agenti nell’interno e per motivazioni intrinseche soggettive e psicologiche” (Spaltro, 1977, p. 11).

Le organizzazioni sono state per tradizione fondate su modelli teorici improntati al taylorismo che poneva, come centrale, l’esigenza di dividere il lavoro e di controllarlo, facendo leva soprattutto sulla forza operai (D’Imperio, 1994), nel senso di adattarla ai requisiti di un’organizzazione che così diveniva burocratizzata e meccanicistica (Morgan, 1999).

Col taylorismo, la produttività identificata con il concetto del rendimento della manodopera diretta, viene garantita da una scomposizione e parcellizzazione dei compiti, dall’adozione di un modello organizzativo tendente a dividere il lavoro tra la manodopera e la dirigenza, cosicché ognuno possa usare al meglio le proprie capacità (Berry e Houston, 2000). In questo modo gli operai vengono resi dei veri e propri servi o delle appendici delle macchine, le quali hanno il controllo del funzionamento organizzativo e dei ritmi lavorativi (Morgan, 1999). Dall’altro spetta solo a pochi dirigenti il compito dell’innovazione, della tutela all’efficienza mediante serrati controlli e della gestione delle variabili del clima organizzativo (D’Imperio, 1994).

In questo senso l’organizzazione risponderebbe sostanzialmente ad uno strumento, costruito con diversi gradi di efficacia e di efficienza, e diretto a coordinare secondo un piano razionale gli sforzi degli individui che vi lavorano per il perseguimento del fine (Marocci, 2000; Depolo, 2003). Concepire l’organizzazione come una macchina strutturata allo scopo di raggiungere obiettivi predeterminati, è fuorviante proprio perché in tal modo, si tende ad ignorare gli aspetti relativi al fenomeno umano e si fa delle aziende insiemi di pezzi inanimati (Morgan, 1999).

Questa prospettiva oltre a trascurare i quotidiani aspetti caotici delle organizzazioni, adombrati dall’ordine e dalla solidità apparente, tende a mettere in secondo piano, gli sforzi che gli individui e gruppi sono costretti a dedicare costantemente allo scopo di mantenere funzionante e fluida la macchina organizzativa (Depolo, 2003).

Di fronte all’aumentare della velocità dei cambiamenti economici e sociali, i limiti intrinseci ad un tale modello organizzativo sono divenuti sempre più palesi: si è reso necessario sviluppare forme organizzative improntate ad una maggiore flessibilità nei confronti dell’ambiente mutevole, per evitare che la stessa azienda restasse vittima della segmentazione dei livelli gerarchici, funzioni e ruoli, creanti blocchi e barriere insuperabili. Contemporaneamente è emersa una maggiore consapevolezza delle limitazioni di tale approccio nei confronti delle capacità umane: gli individui verrebbero modellati nel proprio lavoro, ai requisiti dell’organizzazione, piuttosto che costruire quest’ultima attorno alle capacità e potenzialità dei primi (Morgan, 1999). Buona parte degli studi organizzativi a partire dalla fine degli anni venti, hanno tentato di superare i limiti di questaprospettiva e trasformare così i modelli di riferimento delle organizzazioni assicurandone un’efficienza complessiva e continuità di cambiamento (Morgan, 1999). Siamo passati dunque all’idea di dover cercare di integrare i bisogni degli individui con quelli dell’organizzazione. Elton Mayo, Chris Argyris, Frederick Herzberg, Douglas McGregor, hanno dimostrato che era possibile modificare strutture burocratiche, stili di leadership, l’organizzazione del lavoro in senso lato, in modo da incoraggiare gli individui sia ad adeguarsi al disegno organizzativo, sia a sviluppare la loro creatività (in Schein, 1970; in Morgan, 1999).

Una differente concezione dell’organizzazione fece emergere un nuovo modo di affrontare il ruolo delle risorse umane dell’azienda (D’Amato, 2003a): l’attenzione venne così rivolta agli atteggiamenti e alle preoccupazioni dei dipendenti nonché a variabili di natura sociale. “*…+ Uscire da una rappresentazione di oggettività dell’organizzazione, intesa cioè solo come fatto esterno, non modificabile *…+ come fatto altrui, dato e precostituito *…+ per incamminarci verso la strada di una visione soggettiva e interna dell’organizzazione come realtà, convenzionale, ma proprio per questo modificabile, progettabile, quindi precaria, discutibile, di appartenenza di ciascuno, continuamente oggetto di una possibile scelta e non solo di imposizione” (Marocci, 2000, p. 21).

Non c’è ragione di continuare a studiare le organizzazioni come fenomeni di carattere prevalentemente (o esclusivamente) strutturale, relegando i fenomeni soggettivi ad un ruolo quasi di disturbo della razionalità organizzativa. La complessità e il numero delle variabili in gioco non dovrebbe essere una giustificazione per l’esclusione degli attori (Depolo, 1982).

La possibilità di dar vita a forme organizzative differenti è passata quindi attraverso l’assegnazione di una maggiore autonomia e responsabilità dei dipendenti, “riscoperti” come risorse dotate di particolare valore ed in grado di contribuire alle attività dell’organizzazione (Morgan, 1999) le quali non sono costituite da altro se non dalle persone che le compongono (D’Amato, 2003a). Nello studio dell’organizzazione e dei processi che in essa avvengono, è stata quindi condivisa la necessità di tenere in considerazione (misurare) il ruolo centrale che le risorse umane rivestono all’interno di questa (D’Amato, 2003a).

Dal momento che non esiste una “migliore” visione da adottare nello studio dell’organizzazione o un modo “migliore” di essere, per un’organizzazione diventa quindi evidente la necessità da parte della stessa di sottoporsi ad una continua diagnosi e una continua presa di coscienza della situazione presente anche come punto di partenza verso prospettive future (Selvatici, 1978; De Vito Piscicelli, 1983). Una diagnosi organizzativa sarebbe rivolta a “*…+ misurare il collettivo non dall’esterno, cioè osservando le organizzazioni come degli oggetti, ma dall’interno dei soggetti che compongono le organizzazioni; se vogliamo diagnosticare le organizzazioni dobbiamo smettere di contemplarle ed incominciare a guardarle con gli occhi dei loro componenti” (De Vito Piscicelli, 1984, pp. 68-9).

Ma progettare organizzazioni favorendo il recupero della dimensione individuale, sociale e collettiva, non significa accantonare modelli tradizionali di analisi, cadendo quindi in una “sorta di panpsicologismo che pretende di spiegare ogni aspetto della dinamica organizzativa“ (Depolo, 1978, p.220). Aggiunge Spaltro (1977): “diagnosticare significa rispettare anche parzialmente la visione strutturalista delle organizzazioni rifiutando le totalizzazioni da qualunque parte esse vengano” (Spaltro, 1977, p. 116). La vera sfida sta dunque nel saper integrare i vari approcci allo studio dei fatti collettivi, per fornirci un quadro per lo meno più complesso degli ambienti organizzativi (Depolo, 1978).

Nel momento in cui si va ad indagare una realtà organizzativa è criticabile quindi, avvicinarsi ad essa, favorendo una centratura esclusiva sulle caratteristiche degli individui che vi agiscono senza far riferimento al contesto in cui operano; analogamente, continua la critica di Hosking e Morley (in Depolo, 2003), non è possibile considerare le organizzazioni come un contesto indipendente dall’azione delle persone che vi si trovano.

Le tematiche esposte, già affrontate da Allport (1) (in Depolo, 2003), mettono in luce i limiti intrinseci di un approccio entitario, (approccio cioè che tende a considerare la persona e l’organizzazione come entità separate, indipendenti) favorendo piuttosto una lettura (diagnosi) del contesto organizzativo attraverso il mutuo rapporto che si instaura tra l’individuo e l’organizzazione.

Quindi nel momento in cui si tenta di diagnosticare le organizzazioni come fatto psicologico, cioè soggettivo, non si vuole assolutamente negare l’importanza del tradizionale modo strutturalista ed obbiettivista di studiare le organizzazioni, ma soltanto aggiungere un contributo seguendo alcune variabili, dimensioni tradizionalmente trascurate e quindi ancora tutte da scoprire e da usare concretamente nella diagnosi e nell’intervento su quei fatti collettivi chiamati organizzazioni. Si vuole cioè combattere non l’obbiettività ma l’utilizzo totalizzante, monopolistico, immobilistico e reazionario che dell’obbiettività viene fatto” ( Spaltro, 1977, p. 10).


1   La critica di Allport fa riferimento da una parte a quegli approcci che sovrastimano la possibilità di spiegazione delle differenze osservate nel comportamento organizzativo di individui a partire dalle loro caratteristiche di personalità indipendentemente dalle variabili organizzative quali vincoli e risorse del sistema, tipo di compito, tipo di direzione a cui sono sottoposti. Questo tipo di teorie peccherebbe di quello che l’autore definisce “fallacia individualistica”. Dall’altra, Allport, definisce “fallacia culturalistica”, l’enfasi eccessiva posta sul contesto e sulla sua capacità di modellare il comportamento di individui e gruppi per mezzo dell’influenza di forze sociali, culturali e situazionali. E’ un indicatore di questa impostazione il considerare le organizzazioni come un dato, come un insieme di processi che esistono indipendentemente dalle persone che in quei processi si trovano ad agire in un dato momento (in Depolo, 2003).


Il significato della diagnosi

Il termine diagnosi, composto dalle due parole greche dia (attraverso, per) e gnosis (conoscenza), evoca un tentativo di conoscenza, un modo di riconoscere, attraverso segni non convenzionati, una situazione non immediatamente percepibile (Amovilli, di Taranto e Bernardi, 1995). Diagnosticare psicologicamente le organizzazioni significa trattare le organizzazioni come insieme di sentimenti, atteggiamenti, percezioni, e non unicamente come fatto obiettivo esterno, tangenziale, strutturale (Spaltro, 2004). La diagnosi attraverso clima tenta di affiancare al tradizionale approccio strutturalista un sistema che prende in considerazione l’organizzazione come fatto soggettivo, che sia di possibile appartenenza di tutti gli individui, per garantire loro una maggiore presa di coscienza della situazione in cui operano e perché di essa tengano conto prima di agire (Marocci, 1975). Si vuol sostenere, che la variabile uomo è stata trattata come una delle variabili che influenzano il raggiungimento dei fini dell’organizzazione, variabile magari più complessa, più articolata e meno facilmente manipolabile di altre (Depolo, 1982). Il confronto per lungo tempo è stato tra chi ha caricato il concetto di clima di una valenza prettamente individuale soggettiva e psicologica e chi ha teso piuttosto ad assegnargli una valenza strutturale, maggiormente connessa alle caratteristiche organizzative (Cacciani, 1983; Corigliano, 2001).

“Ogni diagnosi organizzativa è una misura a doppia faccia che richiede da un lato di misurare strutture, dall’altro di misurare i climi, sempre rispetto a quell’entità collettiva denominata organizzazione“ (De Vito Piscicelli, 1983, p. 144): questo agire sul doppio binario dei climi e delle strutture (De Vito Piscicelli, 1983) sta ad indicare il passaggio da una concezione unitaria, obbiettivista e totalizzante tendente a stabilire la “verità” ad una concezione pluralista basata sulle molte dimensioni del soggetto che compone un’organizzazione (Spaltro, 2004).

Da questa impostazione plurale consegue che sia possibile recuperare sia la prospettiva “realista” (clima come concetto che trascende l’individualità dei membri dell’organizzazione) sia la prospettiva “nominalista” (clima come elemento presente solo nella rappresentazione dei soggetti, creato e mantenuto nelle loro menti): il clima nascerebbe piuttosto nella relazione tra individui ed organizzazione, ma non è un elemento né degli uni né dell’altra, mentre sono le caratteristiche degli individui da un lato e le caratteristiche dell’organizzazione dall’altro a dover essere individuate come fonti, fattori o cause del clima (Corigliano, 2001).

L’attenzione viene rivolta ai vissuti dei membri che si strutturano nell’interazione con l’organizzazione e le sue parti e determinano il comportamento dei singoli, dei gruppi e dunque del funzionamento complessivo dell’organizzazione (Majer e D’Amato, 2002). La diagnosi organizzativa mediante la procedura di analisi del clima fornisce un attento esame delle percezioni relative alla struttura, le percezioni dei rapporti, delle relazioni e delle attività che, all’interno dell’organizzazione si definiscono (De Vito Piscicelli, 1984).

Ogni accadimento organizzativo viene interpretato dai suoi membri e gli individui rispondono alle situazioni nelle quali si trovano ad essere inseriti in base al significato che esse assumono per loro: l’interpretazione che ne scaturisce determina e condiziona il loro comportamento ed il funzionamento dell’organizzazione nel complesso (Marcato, 2002).

 

La diagnosi di clima come processo

La rilevazione del clima organizzativo può essere concepita in ottiche difformi, talune in senso di intervento psico-sociale come primo momento di cambiamento, Spaltro afferma in proposito “il problema della misura dei climi o della diagnosi organizzativa coincide con quello del cambiamento organizzativo, non essendo possibile una misura che non modifichi fortemente il campo misurato” (Spaltro, 2004, p. 54) altre in senso prettamente diagnostico, come individuazione dello stato di salute dell’organizzazione, dei punti di forza e di debolezza, della capacità e disponibilità degli operatori sotto indagine di sviluppare una riflessione critica del

proprio ambiente di lavoro (D’Amato, 2003a). Un’ ulteriore ottica sarebbe indirizzata a conoscere l’immagine che l’organizzazione offre all’ambiente con cui interagisce. (2) Nell’attuare l’analisi del clima organizzativo e nell’analizzare a posteriori i risultati, si riconosce che quanto si sta misurando è una realtà che inizia a evolversi fin dal momento in cui l’analisi ha inizio (D’Amato, 2003a).

In questo senso la diagnosi di clima organizzativo consiste in un’analisi di processo; effettuare una diagnosi in un’organizzazione significa agire con l’organizzazione stessa, prendendo parte al processo e possedendo la capacità di influire sul processo stesso. Per questo la diagnosi è essa stessa un processo, perché essendo parte di questo, influenza direttamente lo stesso (Spaltro, 2004).

Un processo è il modo in cui la dinamica sociale avviene, mentre un contenuto sono i fatti che compongono questa dinamica sociale: i fatti sono il contenuto e il modo con cui questi avvengono sono il processo. Una diagnosi di clima si riferisce essenzialmente a quest’ultimo, perché raccoglie il modo in cui certi avvenimenti, problemi, speranze, ricordi, vengono ad essere vissuti, discussi, ricordati, sentiti e sperati in modo soggettivo dai componenti dell’organizzazione (Spaltro, 2004). La diagnosi organizzativa consente di cogliere con precisione e ricchezza di particolari il percorso che l’organizzazione sta seguendo, il sentiero che ha imboccato, la direzione verso la quale si sta muovendo (Majer e D’Amato, 2002).

In quest’ottica si può parlare di diagnosi organizzativa, come tentativo di cogliere con maggiore o minore rilevanza la dinamicità del fatto organizzativo; ciò significa allontanarci dal tradizionale approccio che vede nell’analisi di clima un processo in grado di fornire una fotografia dello stato di un’organizzazione da un punto di vista degli individui che l’organizzazione compongono (Brunori, 1975; Marocci, 1975; Spaltro, 1977; De Vito Piscicelli, 1984), e fare riferimento piuttosto, ad un processo in grado di creare un’immagine specchiata che “permette nel contempo a chi osserva di vedersi all’interno di un contesto allargato, di vedere se stesso *…+ talvolta concentrato su elementi esterni rispetto a sé *…+ tal’altra chiuso in se stesso *…+ ma potendo immediatamente tornare a considerare tutta la prospettiva” (D’Amato, 2003a, p. 47). Per questo una diagnosi organizzativa è un “analizzatore” di processo, cioè una metodologia-artificio di piccolo gruppo tendente a visualizzare, rappresentare ed analizzare i processi che la diagnosi mette in moto (Spaltro, 2004).

Nel momento in cui, una qualsiasi organizzazione si propone una diagnosi partendo dalla creazione di gruppo e di riunioni che comporranno la misura di clima, un processo di reazione alla diagnosi, sentita come cambiamento di clima si mette subito in moto (Spaltro, 2004).


2  Il clima che caratterizza una determinata situazione organizzativa non produce effetti solamente al suo interno, ma anche all’esterno. Infatti, coloro che interagiscono con una organizzazione maturano una percezione sommaria della stessa basata sia sui servizi e prodotti offerti, sia sui comportamenti degli impiegati con cui si trovano a interagire. Tale percezione costituisce un elemento su cui si basa la decisione di rimanere o meno in rapporto con quella organizzazione. In particolare si è messo in evidenza che ciò che determina la fedeltà dei clienti verso un servizio, non è tanto la valutazione che viene fatta dello specifico servizio, quanto la percezione globale che essi hanno dell’organizzazione che lo fornisce (Neri, 2001).


 

La diagnosi come ricerca intervento

Fin dal momento in cui l’analisi di clima viene definita a livello dei vertici e negoziata con coloro che concretamente si occuperanno di seguire il processo in tutti i suoi vari aspetti, essa inizia a modificare la situazione presente nel contesto organizzativo e ogni step della stessa costituisce la base di partenza dello step seguente, in un processo continuo nel quale i confini di ognuno di questi momenti sono solo parzialmente definiti e non è quindi sempre chiaro quando si sia completato il transito da una fase a quella successiva (D’Amato, 2003a).

“E’ pertanto largamente condiviso il principio secondo il quale effettuare un’analisi di clima significa, anche quando a livello dichiarato si stia semplicemente effettuando una ricerca, attuare una ricerca/intervento” (D’Amato, 2003a, p. 49). La diagnosi organizzativa diventa allora un momento importante per la componente di intervento diretto sulle situazioni reali che è l’aspetto speculare del lavoro teorico e di ricerca sui fenomeni organizzativi (Depolo, 1982).

Si tratta di una ricerca perché si indagano aspetti centrali della vita organizzativa e contemporaneamente di un intervento per le azioni che verranno promosse sulla base delle analisi effettuate e per le dinamiche che la sola riflessione sul proprio essere nell’organizzazione viene a determinare (Marocci, 2001,2002; D’Amato, 2003a).

Una diagnosi organizzativa provoca sempre una maggiore presa di coscienza in coloro che la diagnosticano, la comprendono e ne tengono conto prima di operare su di essa e con essa . Una più diffusa coscienza dei problemi vigenti, della loro importanza, della speranza di una loro soluzione, della credibilità e fiducia dei e nei componenti dell’organizzazione, degli stili di comando chiariti dal proprio e dal punto di vista dell’Altro è sempre fonte di maggiore coscienza e incidenza sulla realtà (Spaltro, 1977).

Attraverso la presa di coscienza del proprio vissuto e la conoscenza del vissuto altrui, come parte della stessa componente organizzativa o di una componente reputata “altra”, si verifica un percorso inarrestabile di ricontestualizzazione e riconcettualizzazione del proprio vissuto (D’Amato, 2003a).

Le ricerche-intervento sono tecniche di conoscenza che consapevolmente si pongono la questione di una ricerca non neutrale ed asettica che comunque incide sulla realtà e che nell’influenzarla fa perno sulla conoscenza e sulla scientificità contestuale del trattare i dati (Amovilli, 1998). Il concetto di ricerca-azione nasce dalle esperienze di Lewin: il concetto nell’ottica lewiniana ha una valenza specificamente psicosociale nella misura in cui articola i processi psicologici della cognizione e dell’azione con le dinamiche sociali della partecipazione, del confronto, del lavoro comune attorno ai problemi (Amerio, De Piccoli e Miglietta, 2003).

 

Il modello classico di Ricerca Azione

La ricerca-azione è stata in un certo senso una sfida in quanto ha rovesciato i canoni consolidati del tradizionale modo di guardare ai due processi di base mediante i quali l’essere umano si relaziona con il mondo: da un lato i processi di conoscenza e di pensiero, che mirano essenzialmente a comprendere, spiegare e dare un senso, dall’altro i processi di azione, cioè l’attività pratica, che mirano all’intervento, alla trasformazione, al cambiamento. I processi

coniugati sono espressione di un rivolgersi al mondo in modo attivo, nel senso che entrambi lo costituiscono/ricostruiscono nel “mondo umano-sociale” (Amerio et al., 2003). Per Lewin (in Amerio et al., 2003) la ricerca azione costituiva un modo per studiare le variazioni del sistema di forze caratterizzanti una situazione data e quindi il focus dell’attenzione era posto sul processo di cambiamento, fermo restando l’interesse per la risoluzione dei problemi pratici. Era per lui un mezzo per arrivare a migliorare la condizione di vita delle persone attraverso un intervento che non fosse calato dall’alto, quindi subìto e non compreso dai suoi destinatari, ma attuato attraverso la collaborazione e la partecipazione attiva degli utenti che coinvolti nelle varie fasi del processo, arrivano ad essere protagonisti del cambiamento, in una dinamica di costante mediazione tra gli interessi contrapposti presenti entro il contesto (Amerio et al., 2003). Nella sua formulazione originale il processo di ricerca azione consiste in una spirale di cicli, ognuno dei quali si articola in tre momenti successivi: la pianificazione, l’esecuzione e la ricognizione (Fig. 1.1.). Quest’ultimo momento è indirizzato a valutare i risultati di ogni fase, a preparare una base razionale per il momento successivo e per modificare se necessario, il piano di azione originale Lo stesso Lewin (in Amerio et al., 2003) definiva le fasi del processo di ricerca chiarendo come la pianificazione fosse un momento originato di solito da un’idea generale in base alla quale, dopo un’indagine

Fig. 1. 1. Schema ciclico della ricerca-azione. Fonte: Amerio et al., 2003, p. 273.

 

SCHEMAMARCONCINI1

più approfondita della situazione si andava generando un progetto globale per il perseguimento dell’obiettivo. Nell’esecuzione delle azioni l’idea originale si andava modificando. Il piano verrebbe realizzato secondo vari step e al termine di ciascuno si procederebbe secondo delle inchieste. Tali esami andrebbero ad assolvere quattro funzioni; innanzi tutto tenderebbero a stabilire se quanto è stato eseguito corrisponde o meno alle aspettative. Secondariamente fornirebbero la possibilità agli ideatori del piano di apprendere, vale a dire di accumulare nuove intuizioni generali circa, ad esempio la validità o l’inefficacia di determinate tecniche di azione. Fornirebbero inoltre le basi per il passo successivo e consentirebbero infine di far fronte alle necessità per l’eventuale modificazione del piano globale. Giunti alla fine del primo ciclo di ricerca azione, valutati i risultati ottenuti e l’eventuale modificazione prodotta rispetto alla situazione di partenza, il processo riparte con un nuovo ciclo in cui saranno compresi gli elementi nuovi emersi dall’attività condotta nel ciclo precedente, e così via fino all’esaurimento della situazione problematica (Amerio et al., 2003).

Principi fondamentali dell’action research sono la partecipazione democratica, l’azione sociale e il ciclo continuo di analisi della situazione e riconcettualizzazione della stessa. L’action research non ricerca consenso ma promuove il dialogo e l’emergere delle differenze; è il metodo che riconosce l’azione reciproca della riflessione e dell’azione (D’Amato, 2003a).

 

Gli elementi della Ricerca Azione riproposti nella diagnosi di clima

Il processo di diagnosi climatica ricalca nel suo svolgimento quello che Lewin definiva il “research- informed action experiments”, cioè un “avanti e indietro ciclico tra ogni sorveglianza approfondita della situazione problematica *…+ e una serie di esperimenti d’azione informati dalla ricerca” (Amerio et al., 2003, pp. 272-273).

Il senso di partecipazione, caratteristica fondante dell’action-research, viene colto nei processi di diagnosi di clima organizzativo, dal momento che questi tendono a considerare tutti i componenti dell’organizzazione come soggetti attivi, come protagonisti dell’organizzazione: tutti i lavoratori collaborano alla costruzione del clima stesso (Majer e D’Amato, 2002).

“Non bisogna inoltre mai dimenticare che una delle peculiarità dell’analisi del clima organizzativo è la sua natura di processo che si svolge con le persone e sulle persone, i misurati coincidono con i misuranti“ (D’Amato, 2003a, p.58). Nell’analisi del clima organizzativo, oggetto della ricerca sono i dipendenti, membri dell’organizzazione che con i loro vissuti sono spettatori e attori dell’intervento (Molinari, 2002). Proprio in quanto diretti conoscitori e portatori dei vissuti e delle percezioni relative alla vita organizzativa, risultano nel contempo soggetti della ricerca, il cui obiettivo dichiarato consiste nel definire azioni che modifichino in positivo la realtà organizzativa; il cambiamento si realizza fin dalle prime analisi come risultato dell’introspezione che si richiede ai membri dell’organizzazione (D’Amato, 2003a).

Diagnosticare l’organizzazione viene ad essere un momento di arresto e di riflessione non solo per chi si troverà ad analizzare i dati emersi, ma anche e soprattutto per coloro che, davanti ad interrogativi che riguardano la loro vita organizzativa, magari elaborati inconsciamente ma sui quali non si è mai effettuata una riflessione strutturata, si trovano a meditare. La riflessione si può protrarre nel corso del tempo fino ad una aperta discussione, che può coinvolgere altri membri del gruppo di lavoro o altri gruppi e che porta all’esigenza di conoscere la situazione globale emersa dalle risposte fornite da tutta l’organizzazione (Majer e D’Amato, 2002).

La diagnosi di clima, come ricerca-intervento, centralizza l’azione non solo come uno strumento per produrre cambiamenti o nuove forme di organizzazione, ma anche comestrumento di conoscenza della realtà nella quale gli individui operano. La ricerca azione si qualifica come un processo attraverso cui i ricercatori e i membri di un’organizzazione, collaborano all’analisi, alla comprensione ed alla soluzione dei problemi ed è pertanto da intendersi come un processo sociale in cui la competenza professionale, la conoscenza locale, gli assunti metodologici ed i valori democratici costituiscono le basi per costruire “sapere”, promuovere il cambiamento sociale e per la piena consapevolezza in merito alle percezioni e stati d’animo del personale dell’azienda (Amerio et al., 2003; D’Amato 2003a).

La rilevazione di clima, in linea con gli assunti dell’action-research, cerca in generale di armonizzare due esigenze: da un lato, quella di mantenere il senso della partecipazione e dell’ottica democratica di fondo, dall’altro di sviluppare caratteristiche di rigore metodologico e di standardizzazione di procedimenti, onde poter competere con la ricerca tradizionale sul piano del controllo, della verificabilità dei dati e della formazione dei ricercatori (D’Amato, 2002; Spaltro, 2004).

Il concetto di clima organizzativo, quindi, è un riferimento importante non solo per l’analisi ma anche per gli interventi finalizzati all’ottimizzazione del funzionamento organizzativo, confermando così la sua utilità di costrutto teorico interpretativo dei fenomeni organizzativi e le sue implicazioni gestionali (Schneider e Bowen, 1995 in Corigliano, 2001). La reale rilevanza del concetto è da ritrovarsi nella sua capacità di porsi come strumento di sviluppo organizzativo (Corigliano, 2001).

Un ultimo elemento caratterizzante la ricerca azione, e realizzato nelle diagnosi di clima, è la restituzione dei dati all’organizzazione. Risulta fondamentale per ottenere la cooperazione degli individui, dei gruppi e delle organizzazioni insieme alla necessità da parte dei partecipanti di familiarizzarsi con gli aspetti scientifici del problema (Lewin, 1972).

Da un lato, infatti, la diagnosi dell’organizzazione avviene di fatto in questa fase, insieme ai gruppi che hanno fornito i dati e non è semplicemente il risultato di elaborazione ed interpretazione dei dati fatto dai ricercatori (Depolo, 1982). Inoltre il coinvolgimento incoraggia l’appropriazione psicologica dei fatti da parte dei membri del gruppo, permette una raccolta dei dati maggiormente efficace ed economica, e consente ai partecipanti di apprendere metodi che possono essere usati in futuro (Amerio et al., 2003). Attraverso il paragone reciproco delle percezioni fatte circolare mediante il riciclaggio dei dati, si crea un sentimento di autodiagnosi, cioè una diagnosi fatta da molti (quasi da tutti) componenti dell’organizzazione che permette di vedere il collettivo con gli occhi di chi in questo collettivo vive (Spaltro, 2004).

La riproposizione dei risultati dell’analisi ai diretti interessati, ovvero la condivisione degli stessi con tutti coloro che hanno partecipato attivamente alla diagnosi organizzativa, evidenzia un brusco passaggio a uno stato nuovo: il nuovo panorama è determinato dall’assunzione di responsabilità e negoziazione di un impegno duraturo sia da parte del management, che segnala la reale volontà politica di prestare la dovuta attenzione e importanza a tutti i componenti dell’organizzazione, sia da parte del lavoratore nel suo duplice essere persona inserita in un gruppo di lavoro e parte di un sistema organizzativo (D’Amato, 2003a). La convinzione è che lo scambio dei risultati della diagnosi (le percezioni di clima), la loro socializzazione e collettivizzazione, siano la premessa indispensabile per innescare quei circoli virtuosi di reciproca influenza e ascolto tra dipendenti e organizzazione di appartenenza (Ekvall, 1997; D’Amato, 2003a; Spaltro, 2004).

 

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